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Perché si cambia lavoro?

Cambiare lavoro raramente è una decisione facile e non è semplice fare ipotesi sui motivi che spingono le persone a farlo. Per ogni professionista che decide di cambiare perché infelice, ce ne sono altri che non hanno alcun problema con i loro attuali colleghi o con il proprio capo, ma vedono la nuova opportunità come un mezzo per portare la propria carriera a un livello superiore. Ma spesso non si tratta di un addio.
“In un mercato competitivo, complesso e in continua evoluzione come quello attuale – spiega Alberto Mariotti Cesarini Romaldi, Senior Director di PageGroup, società di recruiting che opera in Italia con i brand Page Executive, Michael Page e Page Personnel – non è così raro che alcuni dipendenti decidano poi di tornare indietro se (e quando) dovesse presentarsi l’occasione. Ecco perché, quindi, molte aziende stanno implementando programmi di rientro che aiutano a mantenere i contatti con gli ex dipendenti e, se le circostanze lo consentono, di riassumerli. Recentemente abbiamo condotto un’indagine tra oltre 5.400 candidati in tutta Europa per capire cosa i lavoratori pensino di un eventuale ritorno alla vecchia azienda ed i risultati sono abbastanza sorprendenti: solo una minoranza degli intervistati ritiene che tornare indietro sia un errore mentre, per addirittura il 38%, potrebbe essere vantaggioso”.
Quante persone si licenziano per cambiare lavoro e perché? L’indagine PageGroup. Più di sette intervistati su 10 (il 73%) hanno dichiarato di aver volontariamente cambiato lavoro almeno una volta nella loro vita per fare carriera, per accrescere la propria retribuzione o i benefit. In particolare, il 41% ha dichiarato di voler acquisire maggiori responsabilità e dare una spinta alla propria carriera, il 36% per andare a ricoprire un nuovo ruolo o per lavorare in un nuovo ambito/settore, il 20%, invece, per ragioni economiche, per avere benefit più vantaggiosi, per motivi personali o per un disallineamento tra i propri valori e quelli dell’azienda.
La ripartizione per genere è interessante: il desiderio di maggiori responsabilità è emerso con una più alta frequenza negli uomini rispetto alle donne (45% contro 37%). Dall’altro lato, però, le donne che decidono di cambiare lavoro per motivi personali sono più numerose degli uomini (25% contro 17%).
“Un dato fondamentale che emerge da questi risultati – aggiunge Alberto Mariotti Cesarini Romaldi – è che la sensazione di aver raggiunto il proprio limite è un fattore critico nella decisione di molte persone di cambiare lavoro. Alcuni dipendenti hanno aspirazioni e ambizioni che non possono essere soddisfatte dal loro attuale datore di lavoro per svariate contingenze”.

Chi lascia il lavoro si pente della propria decisione? Le relazioni contano. Più di un intervistato su quattro (28%) ha dichiarato di aver cambiato un lavoro e di essersene poi pentito. Di questi il 51% ha spiegato che la nuova azienda non era quella che si aspettava o sperava di trovare, mentre il 18% ha sentito la mancanza dei propri ex colleghi.
Gli intervistati più giovani sono quelli che tengono di più ai rapporti con i propri ex colleghi: un intervistato su tre (33%), infatti, lo cita come il fattore principale. Chi ha più anni di esperienza, invece, la pensa diversamente: la metà (51%) degli intervistati di età superiore ai 49 anni ha indicato il mancato rispetto delle aspettative da parte del nuovo datore di lavoro come la ragione principale del proprio rimpianto.
“Cambiare lavoro – conclude Alberto Mariotti Cesarini Romaldi – è sempre un po’ rischioso e non tutte le opportunità sono all’altezza delle aspettative. Ecco perché risulta fondamentale farsi accompagnare nel percorso da consulenti professionisti che conoscono l’azienda, le opportunità e soprattutto le aspettative dei candidati. Nel nostro lavoro di ogni giorno sappiamo quanto il fattore umano sia importante, il rapporto con i propri colleghi o con il proprio ex capo, l’ambiente e in generale la qualità dell’organizzazione viene apprezzata una volta fuori. Ecco perché pensare alle proprie ex aziende come nuove opzioni di carriera non è affatto raro, anzi”.
E allora, tornare o non tornare indietro? Il 69% degli intervistati ha dichiarato di essere tornato presso uno dei propri ex datori di lavoro o che prenderebbe in considerazione l’idea di farlo se si presentasse l’opportunità. Viene da chiedersi, a questo punto, se le aziende stiano facendo abbastanza per promuovere i loro programmi di rientro e incoraggiare questi ex dipendenti a rientrare: quasi otto intervistati su 10 (il 79%) hanno infatti dichiarato di non aver mai sentito parlare di questi programmi.
Le aziende devono impegnarsi per rendere più visibili queste iniziative, ma anche rivedere e migliorare continuamente la cultura organizzativa, visto che il 69% degli intervistati concorda sul fatto che si tratta di un fattore critico nella decisione di un dipendente di tornare.
Solo una minoranza degli intervistati ritiene che tornare da un precedente datore di lavoro sia un errore; il 42% degli intervistati non è d’accordo con l’affermazione che i candidati non dovrebbero mai tornare, il 43% rimane neutrale, mentre il 38% pensa che questa possa essere una scelta vantaggiosa, sia per le imprese sia per gli ex dipendenti.