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Quali modelli di gestione del personale?

 

di Vito Gioia, Head Hunter, M&A Advisor e AD di Ward Howell Executive Search.

Intervista a Martina Borsato, Data Strategist di Lifeed (*)

Nel mondo HR si sente sempre più spesso usare l’espressione “persone al centro”: è il segno di un impegno autentico da parte delle aziende o si tratta solo di una moda?

Anche il mondo delle risorse umane ha le sue mode in fatto di linguaggio, i suoi termini ed espressioni che vanno e vengono e quelli che prima o poi finiscono per risuonare vuoti o démodé. Espressioni come queste sono chiamate buzzword, letteralmente “parole d’ordine”; non sempre vantano di un’ottima fama, ma se continuano a circolare è perché sono utili: aiutano a capirsi al volo e mettono tutti d’accordo. L’espressione “persone al centro” ha la forza delle buone intenzioni e funziona come uno slogan. Tuttavia nell’affidarsi a espressioni come queste, corriamo il rischio di non farci più domande e non ci accorgiamo più che chi parla di “persone al centro” spesso si riferisce unicamente ai “professionisti al centro”. Ma ci sono anche dei segnali positivi: nelle aziende oggi si vedono modelli di gestione del personale che superano questa visione, facendo spazio alla persona nei suoi molteplici ruoli di vita (e di cura).

Una visione più inclusiva delle proprie risorse come si può tradurre in un’opportunità anche per le aziende?

La risposta è, mai come oggi, sotto gli occhi (e gli schermi) di tutti: le dimensioni di vita delle persone, private e professionali, sono profondamente intrecciate e condividono gli stessi spazi, anche fisici. Tenerle separate non è più una strada percorribile né sostenibile, non solo per le persone, ma anche per le aziende.
Perché queste dimensioni private, così apparentemente ingombranti nella vita dei lavoratori – pensiamo per esempio alla cura di un figlio o di un genitore anziano – non entrano in conflitto con la sfera professionale, ma possono accrescerla, trasferendo energie e competenze preziose. È la base del life based learning: la vita, con i suoi cambiamenti e le sue transizioni, può diventare un’occasione di sviluppo e di apprendimento continuo, personale e professionale.
Diventa quindi essenziale per le organizzazioni che vogliono davvero mettere le “persone al centro” saper guardare ai propri collaboratori non solo come professionisti, ma come individui a tutto tondo: ampi, complessi e per questo ricchi. Ed è proprio quando la complessità trova spazio che le aziende e le persone acquisiscono territori più estesi per generare benessere e produttività in tutti i ruoli, a tutti i livelli.

Lei lavora con i dati. Ci racconta che contributo può dare la People Analytics in questo passaggio?

Conoscere e prendere decisioni sono la ragione per cui esiste la People Analytics, cioè l’insieme di dati e informazioni che le aziende hanno a disposizione sui dipendenti. Ma per conoscere le persone e non solo i professionisti è necessaria un’evoluzione del modo in cui le aziende intendono e utilizzano la People Analytics.
La People Analytics tradizionale si nutre per lo più di dati quantitativi che – con un parallelismo con il mondo del marketing – possono essere paragonati ai Big Data. Proprio come i Big Data, i dati raccolti attraverso le survey e i sondaggi aziendali sono utili perché fotografano una situazione: i professionisti e il loro livello di benessere ed engagement, per esempio. Dati come questi mettono gli HR di fronte al fatto che le persone in azienda stanno bene, oppure no; sono “engaged”, oppure no. Un’istantanea che non ci dice molto di più: le domande a risposta chiusa infatti non permettono di cogliere emozioni e bisogni complessi, come quelli che vivono le persone oggi.

Ma come si fa a cogliere anche le emozioni e i bisogni reali delle persone?

Esiste un tipo di ascolto che non si limita a osservare ma che va alla ricerca delle ragioni profonde: senza conoscere i “perché” è difficile passare dai dati all’azione.
Ed è proprio in questa direzione che la People Analytics trova un nuovo paradigma per generare valore e utilità per le aziende e per chi prende decisioni. Considerare i dati di natura qualitativa, assimilabili invece agli “Small Data” di cui parla l’autore ed esperto di branding Martin Lindstrom, permette alle aziende di scoprire ciò che altrimenti rimarrebbe sommerso: le emozioni, i bisogni, i desideri e i talenti nascosti delle persone.

Quindi non bastano più le Survey?

Le survey sono necessarie, ma non più sufficienti. Non si tratta quindi di scegliere tra la facilità di una survey e la profondità di un focus group o di un’intervista individuale, perché è dalla combinazione di Big Data e Small Data che diventa possibile per le aziende conoscere gli individui e le loro dimensioni più soggettive, attivando così un ascolto diverso, reale. Questo tipo di ascolto non cerca nuovi momenti e spazi dedicati o strumenti ad hoc, ma può essere innestato mentre le persone lavorano o in altre attività che già le coinvolgono, come progetti di formazione, iniziative di inclusione e diversity. E oggi le direzioni HR delle aziende hanno a disposizione il know-how e la tecnologia per attivare un “ascolto mentre”: mentre le persone rientrano da un congedo parentale, mentre si formano, mentre cambiano ruolo o diventano responsabili di team e persone, solo per citare alcune possibilità. Trasformare cioè ogni esperienza di vita della persona e dell’azienda un’occasione di dialogo, conoscenza e crescita reciproca.

(*) www.lifeed.io è l’EdTech company che ha inventato il Life Based Learning, il metodo formativo che trasforma le transizioni di vita in un’opportunità di crescita personale e professionale. Oggi i percorsi digitali Lifeed sono utilizzati da oltre 20.000 persone in 80 aziende in più di 25 Paesi nel Mondo.
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