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Opportunità lavorative

Non si trova personale qualificato

di Stefania Nigretti

Le aziende hanno ripreso ad assumere, con circa 560.000 offerte nei primi sei mesi del 2021, ma in quasi un terzo delle ricerche si stenta a trovare personale qualificato: per 84.000 figure ad alta specializzazione, cioè in un caso su sei, non si presentano candidati.

È quanto emerge dal Rapporto 2021 sul lavoro sostenibile della Fondazione per la Sussidiarietà (www.sussidiarietà.net), in collaborazione con il Centro di ricerca interuniversitario per i servizi di pubblica utilità (Crisp) dell’Università di Milano Bicocca, appena presentato a Roma al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel).

Osserva Giorgio Vittadini, professore di Statistica e presidente della Fondazione per la Sussidiarietà: “Tutte le professioni stanno cambiando a ritmi mai visti prima. La ripresa economica va sostenuta e rafforzata. Il lavoro deve tornare a essere la priorità attraverso politiche attive che favoriscano la mobilità e la formazione continua”.

Le offerte di lavoro sono concentrate sul web. Dal 2015 al marzo 2021 sono state circa 2.650.000 le ricerche online su oltre una ventina di portali che aggregano annunci di lavoro in modo continuativo (fonte: Wollybi – Burning Glass Europe, elaborazione Crisp). L’analisi conferma un forte divario geografico: nel 2020 il 74% delle posizioni ricercate su Internet riguarda posti al Nord, il 15% al Centro e l’11% al Sud e sulle Isole.

In base all’esame delle aree su cui si focalizzeranno i maggiori investimenti pubblici, anche attraverso i fondi europei, sono stati individuati otto settori che dovrebbero creare nuovi posti di lavoro nei prossimi anni: energia; infrastrutture di trasporto e soluzioni di mobilità sostenibile; ambiente; bioeconomia (agricoltura e pesca sostenibili); telecomunicazioni, tecnologie e servizi digitali; ricerca, sviluppo e innovazione; turismo; economia sociale (formazione, assistenza, cultura, sanità).

Il Rapporto 2021 fotografa alcuni limiti storici del mercato del lavoro italiano, con la difficoltà di creare nuova occupazione e la rigidità del sistema. In dieci anni, dal 2011 al 2020, in Italia il tasso di occupazione delle persone da 15 a 64 anni è salito di poco, passando dal 56,8% al 58,1% (fonte Eurostat). Nell’Unione europea è invece cresciuto dal 63,4% al 67,6%. In Germania l’indice è balzato dal 72,7% al record del 76,2% a fine 2020. La Spagna è passata dal 58% al 60,9% e la Francia dal 63,9 al 65,3%. Nella Penisola nel 2020 solo due lavoratori su cento hanno cambiato impiego, contro i tre di Francia e Spagna e i cinque della Danimarca (fonte Eurostat). Fra le maggiori economie europee, a fine 2020 l’Italia conservava il record di Neet (neither in employment or in education or training), giovani che non studiano e non lavorano: circa il 23,3% (Eurostat). Quasi il doppio rispetto alla media europea (13,7%) e molto superiore a Germania (8,6%), Francia (14%) e Spagna (17,3%).

“È in atto una rivoluzione digitale che investe anche il mondo del lavoro”, dichiara Anna Ascani, sottosegretario per lo Sviluppo economico, che aggiunge: “Il Governo ha un duplice compito: garantire infrastrutture digitali che forniscano alle imprese strumenti per essere competitive e favorire l’inclusione sociale attraverso la creazione di competenze preziose per le persone e per le aziende”.

Secondo Tiziano Treu, presidente del Cnel: “L’impatto della crisi sull’occupazione è stato particolarmente grave, nonostante il ricorso massiccio agli ammortizzatori della Cassa integrazione guadagni e il blocco dei licenziamenti. Per la ripresa non bastano rimedi parziali. Non basta riformare gli ammortizzatori sociali, come pure è necessario per garantire una rete adeguata di sicurezza a tutti i lavoratori qualunque sia il loro status contrattuale. Occorre un cambio di rotta che affronti le radici della nostra debolezza occupazionale con interventi strutturali che diano effettiva centralità al lavoro e alla sua qualità. Servono misure innovative e organiche di politica economica”.

Gian Carlo Blangiardo, presidente dell’Istat, rileva alcuni segnali: “Come abbiamo indicato nel nostro Rapporto annuale, la perdita di occupati determinata dalla crisi è stata di 915.000 unità e il livello minimo si è toccato a gennaio. Nei mesi successivi abbiamo visto un moderato recupero e a fine maggio abbiamo registrato 180.000 occupati in più rispetto a inizio anno. L’emergenza sanitaria ha penalizzato di più i settori dei servizi a prevalenza femminile, ma in seguito questa componente è riuscita a recuperare, sia pure parzialmente. In prospettiva non mancano segnali positivi: la quota di imprese che hanno assunto nuovo personale tra marzo e maggio è passata dall’1,8% al 4,3%; sono segnali che fanno ben sperare. L’altra dinamica importante da seguire nei mesi a venire riguarderà gli sviluppi del lavoro agile: la quota di lavoratori in smart working nelle imprese che lo hanno attivato è passata dal 5% del periodo pre-Covid al 47% dei mesi di lockdown di marzo-aprile, per assestarsi intorno al 30% da maggio in avanti”.

Secondo Luigi Sbarra, segretario generale della Cisl: “Come evidenzia bene il Rapporto, l’occupazione è sempre più polarizzata, frammentata, precaria. Bisogna imparare dagli errori del passato e costruire nuovi strumenti di protezione e di promozione della persona che lavora o che cerca lavoro, affidare la regolazione lavoristica alla buona adattività delle relazioni industriali, combattere lo skill mismatch promuovendo la formazione come diritto soggettivo e varando un grande piano sulle competenze digitali. E poi bisogna ammodernare e rendere universali gli ammortizzatori sociali, collegandoli a una rete di politiche attive che tuteli ogni persona durante le transizioni occupazionali, non lasciandola mai priva di riqualificazione, sostegno al reddito, orientamento nel sistema produttivo. La sussidiarietà della contrattazione, della bilateralità e delle agenzie del lavoro può dare un contributo formidabile a questo scopo”.